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lunedì 9 luglio 2018

Carlo Vanzina è stato ben più dell’inventore del Cinepanettone

Carlo Vanzina è stato ben più dell’inventore del Cinepanettone


«Devo molto a Carlo perché è lui che mi ha scoperto e mi ha dato la possibilità di fare il primo film con lui, Sapore di Mare. Lo conosco da quando aveva 14 anni e giorni fa mi aveva detto che non vedeva l’ora di tornare al lavoro e credeva di farcela. È un dispiacere enorme perdere un amico». Così Christian De Sica, ricordando il regista Carlo Vanzina, scomparso a Roma dopo una lunga malattia: aveva 67 anni. Re della commedia, creò il cinepanettone. In 40 anni di carriera ha realizzato circa 60 film (da Sapore di Mare a Vacanze di Natale).

Regista, sceneggiatore e produttore, col fratello Enrico che si è dedicato più alla scrittura, Carlo è vissuto nel mondo del cinema fin dall’infanzia (a un anno era il piccolo Filippo in Totò e le donne diretto dal padre). Del fatto di essere stato favorito, per le origini, nella carriera ne andava fiero e da ogni occasione ricordava, riconoscente, la figura del padre e il fatto che nella sua casa fossero passati tutti: Totò, Ugo Tognazzi, Mario Monicelli, Ennio Flaiano, Mario Camerini e Dino Risi.

Cinepanettoni per Italiani con un Neurone solo

Ridurre Carlo Vanzina a una sola tipologia sarebbe fare un grosso torto a questo regista prolifico e capace di recuperare la tradizione dell’idea di un «cinema medio», professionale e rispettoso dei gusti del pubblico, attento ai cambiamenti del costume

Nato «fuoristagione» nel 1983 con «Sapore di mare» (prima proiezione il 17 febbraio) ma poi subito rientrato nei ranghi con «Vacanze di Natale» (il 22 dicembre di quello stesso anno). Ma ridurlo a una sola tipologia sarebbe fare un grosso torto a questo prolificissimo regista che, in coppia col fratello sceneggiatore Enrico, ha cavalcato il cinema popolare italiano per quattro decenni – la prima regia fu «Luna di miele» in tre (1976), l’ultima «Caccia al tesoro» (2017) – coprendone quasi tutti i generi. Con esiti alterni, bisogna dirlo, a volte anticipando le svolte del Paese («Le finte bionde» intercettava l’onda del qualunquismo e il culto dell’ego con bella lungimiranza sul ventennio berlusconiano. E per questo forse non fu un successo al botteghino), altre volte accontentandosi di mettere in farsa quello che arrivava dalle cronache dei giornali («S.P.Q.R. – 2000 e ½ anni fa» anticipava Tangentopoli ai tempi di Poppea. Con una volgarità che ne decretò il successo al botteghino).

Altre volte ancora cercando di recuperare quell’idea di «cinema medio», professionale e rispettoso dei gusti del pubblico, tradizionale ma anche piacevole e attento ai cambiamenti del costume, che l’Italia aveva perso con la fine della stagione d’oro della sua commedia e che Carlo (ed Enrico) Vanzina inseguivano. Lo si intuisce in film come «I mitici – Colpo gobbo a Milano» (dove si rifà allo spirito dei «Soliti ignoti» ma anche di «Sette uomini d’oro»), in «Il pranzo della domenica» che è probabilmente la loro miglior riuscita, nei tentativi di percorrere generi insoliti – il film di cappa e spada («La partita»), il giallo («Tre colonne in cronaca») – nel piacere della rivisitazione («Febbre da cavallo – La mandrakata») fino ai recentissimi «Non si ruba a casa dei ladri» e «Caccia al tesoro», dove la commedia si colora di una leggerezza insolita per il nostro cinema commerciale, capace di ritrovare un sguardo bonario ma non corrivo, venato di un moralismo non sgradevole.

Certo, tra i 73 film (e tre mini-serie televisive) che Carlo Vanzina ha diretto ci sono molti titoli dimenticati e dimenticabili, ma anche tantissimi volti che devono a lui e alla sua capacità di trarne il meglio il trampolino per la propria carriera: Abatantuono naturalmente, e poi Isabella Ferrari, Monica Bellucci (che nei «Mitici» rivelava doti di autoironia che poi il cinema ha poco sfruttato), evidentemente Christian De Sica, e ancora Max Tortora, Ricky Memphis, Maurizio Mattioli. Anche Valeria Marini e Manuela Arcuri hanno trovato con lui dei piccoli momenti di gloria.
E sicuramente ne dimentico altri.



Probabilmente ha diretto troppi film, spesso anche due all’anno, e nella quantità il rischio della routine o della superficialità era sempre presente, eppure di fronte alle pochezze di certi giovani «autori» il cinema di Carlo Vanzina dimostra una qualità indubbia: non ha mai abdicato alla voglia di credere in quel prodotto medio che l’industria italiana da troppi anni non è più stata capace di coltivare. E che lui invece aveva sempre inseguito.



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